L’architettura rurale in pietra a secco

L’architettura rurale in pietra a secco nasce da uno stretto legame con le caratteristiche del suolo e dell’ambiente. Questo tipo di costruzioni infatti si rinvengono esclusivamente laddove è naturalmente presente la materia prima e cioè la pietra di natura calcarea.
La tipologia costruttiva è altamente ecologico e presenta un impatto ambientale praticamente nullo che inquadrano questo tipo di costruzioni, assolutamente ecosostenibili, tra gli edifici più rappresentativi della bioedilizia e della bioarchitettura.
L’impatto ambientale di una pajara è molto basso, non solo per la sua assoluta integrazione con il territorio che ne annulla l’impatto visivo essendo le strutture perfettamente e naturalmente contestualizzate nel paesaggio rurale, ma anche e soprattutto perché si può, a ragion veduta, parlare di tipologia costruttiva che rientra a pieno nei criteri dell’architettura passiva. Una struttura passiva infatti è quella che ha bisogno di un apporto energetico minimo o nullo per garantire il benessere termico. Le strutture tradizionali infatti non prevedevano finestre e durante la costruzione venivano adoperati accorgimenti tali da migliorare il comfort, come l’utilizzo di materiali igroscopici o dei “tetti verdi”, che sembrano essere stati inventati dall’architettura moderna e che invece hanno origini ben più antiche.

Le costruzioni a secco trulliformi molto diffuse in Puglia prendono nomi differenti a seconda del territorio e delle funzioni.

Noi le chiamiamo Pajare ma i nomi con cui vengono indicate queste costruzioni differiscono molto nello stesso Salento.

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Truddu infatti è la denominazione che si ritrova nei catasti onciari secondo De Fabrizio. Il Palumbo fa derivare questa voce da “turrula”, diminutivo del latino “turris”, quindi “piccola torre”. Secondo un altro studioso, Simoncini, la radice indo-germanica “Tor” passa al greco ed al latino, implicando il concetto di rotondità.

Casedda, invece, è la denominazione che sempre il De Fabrizio rileva nei catasti onciari della murgia e del tarantino. Simoncini conferma tale denominazione collocandola geograficamente tra la murgia centro settentrionale e il litorale tra Barletta e Polignano. Nell’agro di Tuglie, secondo il Panìco, la locuzione caseddha invece indica un edificio di dimensioni minori e più semplice del “Furnieddhu” ma più articolato in quanto affiancato ad altre costruzioni.

La dicitura Pajaru o Pajara che si ritrova anche nella trascrizione Pagghiaru o Pagghiara indicava, secondo il De Fabrizio una costruzione in pietra a secco con copertura di paglia ed era diffusa nei catasti onciari della provincia di Lecce. Il Costantini individua nella presenza dell’aia, caratterizzante queste strutture, come l’indice di un uso dei Pajari  (o delle Pajare che dir si voglia) per deposito di paglia ricavata dalla battitura dei cereali anche se il nome non sempre è legato alla funzione specifica.
Secondo Spano infine i Pagghiari (o Pagghiare) sarebbero, nella stragrande maggioranza, dei semplici ripari, privi di rinforzi alla base e sprovvisti, nella maggior parte dei casi, almeno nel territorio del nord magliese fino a Lecce, di una spianata sommitale che era sostituita invece da zolle di terra.

Furnu o Furnieddu invece è il nome che veniva data alla costruzione in pietra a secco destinata all’essiccazione alla cottura del pane o dei fichi. Il Calò li descrive come costruzioni tronco-coniche (solo in alcuni casi tronco-piramidali), contenute in due o tre livelli di gradoni concentrici, realizzate interamente a secco. Edifici costituiti da un solo vano a pianta quadrangolare, e nelle forme più antiche circolare, con copertura a falsa cupola. Costantini fa presente come la voce “Furnu” non trovi nessuna giustificazione con la spiegazione che spesso ne danno gli stessi contadini. Etimologicamente il termine potrebbe essere spiegato soltanto se queste costruzioni fossero provviste di focolare o di forno per cuocere il pane. L’ipotesi formulata che il termine furnu sia il nome attribuito ai ripari provvisti di attrezzature per la cottura del pane e per cucinare viene però smentita proprio dal fatto che nella maggior parte delle aree di diffusione di questo termine, raramente si incontra un camino o un focolare all’interno o all’esterno della costruzione.
Secondo Spano, infine il termine “Furnu” è da mettere in relazione con il fatto che il contadino considera il suo riparo un forno vero e proprio perché, durante i mesi estivi, ne utilizzava le superfici dei gradoni e del terrazzo per sistemare i graticci e le stuoie con i fichi da essiccare. Quindi la costruzione veniva denominata furnu solo con un riferimento in senso lato ad un luogo utilizzato per la cottura o la torrefazione di un prodotto.

La denominazione più curiosa e poco utilizzata è quella di Chìpuru che De Fabrizio attribuisce alla zona della Grecìa Salentina mentre il De Lia ne riferisce la diffusione soprattutto a Maglie. Simoncini invece amplia l’area di diffusione di questa parola fino a Leuca, facendo risalire il termine al greco e traducendolo letteralmente con “guardiano del campo”.

Dare una data di nascita esatta a questa tipologia costruttiva è difficile. Secondo alcuni si tratta di edifici realizzati in periodi successivi all’anno mille, in epoca bizantina. Altri, come Cosimo De Giorgi, non escludono un’origine più antica, tra il 2000 a.C. e la fine dell’Età del bronzo, come evoluzione di costruzioni megalitiche quali le specchie. Farebbe propendere per questa ipotesi il rinvenimento di mosaici di epoca romana raffigurati strutture a secco del tutto simili alle pajare e ai furneddhi.

Noi di Pietra Viva realizziamo ex novo pajare e furni e siamo in grado di operare un ottimale recupero di strutture antiche riportandole all’originario splendore. Le ristrutturazioni di furneddhi e pajari avvengono nel rispetto assoluto delle tipologie costruttiva, con l’utilizzo dello stesso pietrame (o di pietrame della medesima natura, a garantire il miglior risultato dell’intervento), con accorgimenti antichi e moderni, al fine di consentire a questi movimenti della civiltà contadina di vivere ancora a lungo e testimoniare ai posteri un nobile passato.
Ci piace dire che facciamo raccontare alle pietre storie antiche con una voce nuova.